Oggi parliamo di ciò che non può essere curato in alcun modo, né spiegato secondo i rigidi e spersonalizzanti paradigmi tecno-scientifici, ma soltanto al limite compreso e accettato, poiché oggi parliamo dell’uomo nella sua essenziale natura di essere desiderante, dunque potenzialmente proiettato verso l’infinito, a fronte però, come sappiamo, di determinati limiti fisiologici e di un’esistenza finita. Ecco da dove nasce la cosiddetta “angoscia esistenziale” di cui, molto prima che nascesse la psicologia clinica con le sue pretese di scientificità, parla da sempre la Filosofia. Ecco l’origine della natura essenzialmente tragica della Conditio Humana: voglio l’infinito, sono finito.
Ombre Mortali di un Desiderio Infinito
Secondo gli antichi Greci, la Filosofia, intesa come l’interrogarsi sul Senso del nostro stare al mondo, nasce da un sentimento ambivalente chiamato Thauma che potrebbe essere reso con un misto di Meraviglia e Sgomento, sorto originariamente dall’osservazione della volta celeste: di fronte alla sconfinata immensità del Cielo lo sguardo del piccolo uomo abitante della terra si perde, lasciando spazio da una parte all’Immaginazione e al Desiderio (che etimologicamente e non a caso indica le sidera, ossia le “stelle”, come limite da oltrepassare), dall’altra all’Angoscia e alla Vacuità (che a livello etimologico designa un vuoto incolmabile).
Ecco, la spinta dell’uomo ad andare oltre per tentare di riempire il suo sentirsi costitutivamente mancante, si scontra irrimediabilmente con l’impossibilità di colmare quel vuoto, quella distanza che lo separa dalla terra al cielo. Ed ecco allora vagheggiare quello spazio d’infinito che sentiamo da sempre ci appartenga, senza poterlo possedere mai. Il poeta lirico Pindaro parla di “ombre di sogni” a proposito degli uomini, definiti abitualmente dagli antichi greci come “mortali”. Personalmente parafraserei il tutto con “ombre mortali di un desiderio infinito”.
Eppure, se diamo retta al più bel testo scritto in Occidente sull’Amore, il “Simposio” di Platone, l’Eros-Desiderio può trasmutarsi e ascendere su livelli di Coscienza sempre più alti. Certo, se restiamo su un piano puramente materiale, restando legati fisicamente e simbolicamente per tutta la vita ad “Afrodite Pandemia”, allora non potremo che vivere nell’insoddisfazione più disperata provocata dal meccanismo infernale in cui viene condannato il fedifrago Tantalo: sempre ad un palmo dall’oggetto del Desiderio, perennemente frustrato dal non poterlo mai soddisfare. Ma c’è di peggio: l’atroce condanna di chi realizza ciò che da sempre desidera e nel momento stesso in cui lo realizza si accorge che esso ha perduto l’intero suo valore. L’inquieto errare senza posa di noi uomini d’oggi, nei giorni che spasmodicamente abitiamo, dimostra quanto sia attuale tutto ciò.
Eppure vi è, come ci permette di intravedere Platone, un’altra possibile via: la via di Afrodite Urania. Una via che, sempre a partire da Eros-Desiderio, sempre a partire dal Corpo e sempre a partire dall’ammirazione per la bellezza delle forme concrete (traducibile come il piacere/desiderio nei confronti di qualcosa di materiale che vogliamo possedere, oggetto o persona che sia), può condurci ad accostarci alla comprensione dei modelli ideali e degli archetipi che stanno alla base delle suddette cose concrete e materiali (permettendoci così di attuare un sano distacco tra noi e le cose stesse ed evitando ossessioni, compulsioni e forme di attaccamento), sino alla possibilità di elevarsi alla Contemplazione della cosiddetta “Realtà” con animo quieto, sub specie aeternitatis.
Accettare ciò che è
Per giungere a tale notevole traguardo, è necessario anzitutto distinguere, come consigliava lo stoico Epitteto nel suo “Manuale”, tra “ciò che dipende da noi” e “ciò che non dipende da noi”. Quest’ultima macro-categoria sarebbe saggio lasciarla andare, abbandonarla completamente, al di là delle nostre pretese, delle nostre aspettative, dei nostri “deve essere così” o “è giusto sia così”, al di là di tutte le nostre rigidità mentali, che hanno edificato intorno all’Ego tutta una serie di paure fittizie e illusori desideri, due facce della stessa identica medaglia. Cominciamo dunque a riconoscere ciò che è, riconciliandoci con esso, nel suo ininterrotto fluire, a partire da ciò che dipende da noi, il che significa in fondo da ciò che noi siamo.
E a questo proposito, sempre il buon Epitteto, sosteneva che ciò che dipende da noi è unicamente la nostra Coscienza, scevra però da ogni moralismo e doverizzazione di stampo cristiano (costruzioni sociali dogmatiche ed etero-dirette), e coincidente semmai con la consapevolezza della nostra energia vitale, ossia con la nostra autentica capacità di auto-determinarci. Per giungere a questo è necessario mettersi alla prova, ossia fare esperienza. Facendo esperienza posso rendermi conto ogni volta di quali siano le mie potenzialità e quali i miei limiti. In questo modo posso giocare con i miei limiti, oltrepassandoli e trovandone di nuovi, senza però mai dimenticare il limite ultimo e invalicabile, che è rappresentato dalla Morte. Per questo motivo, proprio per non dimenticare questo limite ineluttabile, il greco definiva l’uomo come “mortale”.
Oggi, nostro malgrado, Morte e Limite hanno assunto un’accezione puramente negativa. All’interno del paradigma tecno-scientifico attuale non ci sono limiti fissi, ogni limite è semplicemente provvisorio e superabile. La morte è ormai addirittura concepita come una malattia di cui liberarsi e che può essere curata. Magari non ancora, ma presto lo sarà, secondo gli ottenebrati cantori delle magnifiche sorti e progressive. Quale follia! La Morte è l’orizzonte necessario sul quale si proietta la vita dell’individuo affinché quest’ultima possa assumere un Senso. Se fossimo immortali, come gli antichi dei, la vita di un singolo individuo non avrebbe alcun senso e soprattutto non sarebbe degna di essere cantata, ossia ricordata dai posteri. Ecco perché si dice che gli Dei invidiassero la sorte dei mortali, nonostante fossero immortali.
Accogliersi e Accogliere
Non so quanto queste parole possano risuonare ancora nell’anima di noi uomini d’oggi. Nell’esperienza accumulata nell’ambito dell’Ipnosi, accompagnando tantissime persone ciascuna verso la propria Via, mi rendo sempre più conto di quanto sia fondamentale entrare in questa salutare e rappacificante “Visione del Mondo”. E in questo senso l’Ipnosi può aiutare notevolmente, poiché ha come suo principale presupposto proprio il condurci ad abbandonare la pretesa da parte del nostro Ego di voler controllare e dominare tutto: in altri termini potremmo dire che l’Ipnosi è una piccola rigenerante “Morte dell’Io”, la quale ci permette di aprirci ad una dimensione più ampia e originaria, che da sempre ci appartiene e dalla quale noi stessi siamo emersi in quanto “Io”.
Mi sento di concludere aggiungendo che la Vita non è nient’altro che un’Esperienza continua, dove non esiste “giusto” e “sbagliato”, dove spinti dal Desiderio ci possiamo inoltrare a giocare coi nostri limiti rivelando noi stessi a noi stessi grazie, attraverso e nel rispetto degli Altri, dove nella piena e consapevole accettazione di dover morire al nostro limitato e limitante “Io” possiamo vivere una vita piena, degna di essere vissuta, qui e ora, su questa terra, senza il bisogno di creare alcun oltre-mondo. Ebbene sì! Accogliete ciò che siete, al di là del bene e del male, date voce al vostro cuore, ascoltando ciò che vibra nel profondo, e fate che la vostra vita sia meritevole di essere narrata, o come avrebbero detto gli antichi, degna di esser cantata!